IL CANAPAJO

DI GIROLAMO BARUFFALDI

LIBRO PRIMO

Dalla elezione del terreno, e dell'aria per seminarvi la canape.


Io che Bacco seguendo, le sue tigri,
Che al carro allaccia, con la dura sferza,
E col pungolo mio spesso attizzai;
Sicchè per vie novelle, in questa etate,
Ebbro sovente in Baccanal fui tratto:
Sazio di più innestar pampini, e tralci,
Dopo tant'anni che a le viti intorno,
Per trarne il frutto, in compagnia sudai;
Alfin con nuova età cangiando cielo,
E dal superbo Eridano passando
A la sinistra man del picciol Reno,
Dov'ebber gli avi miei nido e riposo,
Di vignajuolo, agricoltor son fatto:
E canterò la canape, e la vera
Cultura d'un sì nobile virgulto,
Che ne' campi d'Italia, e piucchè altrove,
Nel felsineo terreno, e nel vicino
Centese floridissimo recinto,
(Dov'è una terra, che città può dirsi,
Tanto in se stessa, e ne' suoi degni e illustri
Abitatori oggi è pregiata al mondo)
S'alza e verdeggia, e selve forma ombrose,
Quando la stagion fervida comincia
A cuocer l'aria, e finchè il Lion rugge
Nel ciel, dura a far ombra su la terra.
Poi recisa in un tratto, e sottoposta
A più martirj, per le man' villane,
In diverse util'opre si trasforma,
Nè par più quella sì abbattuta innanti,
Ma cosa altra d'onor degna e di pregio;
Che tal la donna lidia tessitrice
Non l'ebbe allor, che fe' con le sue spuole
Guerra d'onore a la Tritonia Dea.
Amiche Muse, voi, che spesso spesso
Guidaste il canto mio per vie più scabre,
Or per sentier più libero e più aperto,
E con voci comuni, e con parole
Convenienti al rustico soggetto,
Secondate il mio dir col vostro suono,
La tromba no, nè la soave lira,
Ma la sampogna umil solo adoprando:
Ch'io d'insegnar, non d'adornarvi intendo.
E tu, gentile vignajuola Albatica ,
Onor del sangue Clementino, e fida
De' Liberati eroi propagatrice:
Vientene meco, se vuoi cose udire,
Non alte già, come di tua natura,
Tu, che romana sei, già fosti avvezza
Sentir su i colli de l'invitta Roma
Dal vivo oracol di Licon sanese;
O pur dove i sì floridi giacinti
Irrigar già solea la Parma, e 'l Taro,
Ma villerecce ed umili dottrine,
Da cui chi è saggio può raccor gran frutto.
So, che la vigna mia ti fu diletta,
E da' tuoi carmi fu illustrata spesso;
So, ch' Enante, sopr'altri, a te fu caro,
Seco sovente gareggiando in rime
Piacevoli non men, che gravi e argute:
Or tempo è, che tu ancora lo secondi
In questa nuova, benchè umile impresa,
Che a te consacra, e col tuo chiaro nome
Sparge per tutta Italia, ad instruirla
De l'arte industriosa, onde a cultura
Ridur si debba il canapino seme.
Nè già disdice a te: tu pur sei donna,
Cui la vita domestica più aggrada,
Che la superba popolar comparsa,
Come la donna forte già lodata
Dal re più saggio, ch'in pel biondo seppe
Piucch'altri mai col crin canuto e bianco;
La qual, quantunque a fort'imprese e invitte
Stendesse il braccio, oprar però le piacque
Col buon consiglio ancor de le sue mani.
Porgimi dunque il tuo benigno orecchio,
Ed i precetti apprendi, onde tu possa
Ai tuoi villani, ed a le forosette,
Che i tuoi coltivan' ubertosi campi
A la destra del limpido Baganza,
L'arte insegnar di farti ricca e pingue
Con questa merce, ch'è sì chiara al mondo,
Di cui già tacque il mantovano Omero.
Chi vuol di forte canape e sottile,
Ma insiem candida quanto è 'l puro argento,
Far a suoi tempi una copiosa messe,
Nè buttar l'opra e la fatica al vento;
Scelga un terreno di propizio clima:
Perché non ogni terra atta è al medesmo
Frutto, nè ogni aria, nè ogni ciel favora
Sempr'egualmente ciò che in terra nasce.
Come veggiam, che non allignan platani,
Nè cerri qui fra noi, ma pioppi, e salci,
Nè là dove di platani e di cerri
Abbonda 'l suol, v'ha salce alcuno, o pioppo;
Così in basso terreno, e limaccioso,
Dove soverchio crasse particelle
S'alzino ad ingrossar l'aria, che piomba,
L'innocente germoglio canapino
Da l'eterea gravedine depresso,
Penerà molto ad ingrandir suo stelo;
E ciò, che di grandezza a lui vien tolto,
Ad ingrossar verrà la dura canna
Di scorza tal, che darà pasco al tarlo;
E allora quando si verrà al lavoro,
Convertirassi inaspettatamente
In canape non già, ma in borra , e stoppa.
E sappi, che la scorza (volgarmente
Tiglio appellata in questi miei contorni)
La scorza, dissi, è tutta la gran dote,
E tutto 'l capital di quella stirpe:
Come del cinnamomo è la corteccia ,
E come di talun, che quanto tiene
Di vesti in casa, tutto indosso porta.
Però l'aria esser de' temprata e dolce,
Mista d'acuminati, e di rotondi
Corpuscoletti, atti a non pugner tanto
Come quella de' gioghi alpestri ed ermi.
Ivi sottil s'alzerà ben lo stelo;
Ma sottigliezza tale, e tal finezza
Più di danno saria, che di suo pregio,
Perchè esile il lavoro, e floscia essendo
La corteccia, ch'è tutto 'l suo tesoro,
Forza poi non avrà di regger molto,
In tela stesa, o in gomona conversa.
E ne fa ben la pruova ogni anno il Veneto
Regio Arsenal, quando sommette i nuovi
Canapi in tana a l'orrido patibolo,
Per veder se nel mar poi reggeranno
A sostener arbori, vele ed ancore,
E d' Aquilone il formidabil impeto.
O di prudenza raro esempio al mondo,
Gloriosa città del mar reina,
Che così ben tieni in ogni opra l'uso
De le bilance, e tutto pesi e libri!
Nè men temprata di sapor dovrai
Sceglier la terra: nè soverchio forte,
Nè troppo dolce fa che sia l'eletta.
Tra queste due però guarda ch'un d'essi
Sapor' non sopravanzi. Quel cretone
Sì duro, a la cultura è assai ritroso,
Nè tritar si può mai come impalpabile,
Nè il seme di leggier rompe le glebe
Per germinar; e se germoglia è raro,
Nè metter può radici, e poco s'alza,
E spesso langue, e muor, perchè non nato
Felicemente da la madre antica.
Questo misto terren chiamanlo i nostri
Zucchegno, e vorrà dir, terren, dov'altro,
Che zucche non allignan, perchè suole
Tal misturata terra aver tal forza
Di tal frutto produr pregnante e idropico.
Che se soverchio è poi leggiero, e dolce,
E d'infeconda inutil sabbia misto,
Come del fiume l'arenoso letto;
Non l'amar già, perchè da se non vale,
Quando d'un gran sudor tu non l'impingui.
Sallo per pruova il misero contado
Di Bologna, colà dove s'accosta
A l'incostante ed arenoso Reno,
Che squarcia spesso i suoi ripari, e tutta
Versa la torbid'ira in su quel piano.
E 'l sappiam noi, che a la sinistra sponda
Piantammo (nè so mai per qual destino)
A questa furia il nostro suol soggetto.
Quanti, già tempo, eran fecondi campi,
D'erbe e di biade ricchi, e in un d'armenti,
Non che di piante, ed or di muti pesci,
E di palustri giunchi albergo sono.
E' ver, che spesso, col mutar pendio,
Muta il suo corso, e in arido trasforma
Quel primo letto; ond'abbiam qui Ren vecchio,
Corpo di Ren, Renazzo, e la Guadora,
Cason di Reno, Ramedello, il Dosso,
E a Panar presso, il vecchio Casumaro
Da le ben radicate annose roveri,
(Che forse Quasi - mar disser gli antichi,
Perchè il Ren, quasi mar, tutto inondava)
E pur oggi son terre asciutt'erbose,
Dove ogni ben di Dio germina e nasce,
Dacchè 'l Ren torse 'l precipizio altrove.
Ma l'arena deposta, per cui sono
Paludose non più, tanto eminenti
Le rese, ch'or non temono il furore
Del ruinoso fiume, onde son nate.
Questa novella spoglia ivi deposta,
Steril rena fu già, reliquia infame
Di quel fiero ladron ch'ivi trascorse,
Nè per gran tempo a provida cultura
Valse, neppur fil d'erba ivi allignando.
Se non che l'arte con l'industria unita,
Di tanta e tal pinquedine coperse
L'aridità de l'arenoso suolo,
A stagion per stagione inviscerandola
Col vomer curvo nel midollo interno;
Che mutò faccia, e fruttuoso apparve.
Dal terren dunque, che di sabbia abbondi,
Sperar non dei di canape ricolta,
Senza l'aita de lo stabbio immondo,
Pel lungo corso di molt'anni e molti,
Onde 'l letame soffochi l'arena,
E appena dir si possa: fin qua giunse
Il fiume, e appena il suo vestigio appaja.
Ma se ciò fai, misura ben lo scrigno,
E la spesa da l'utile diffalca.
Se non che quando ti riesca poi
Domar l'arena, e trasformarla in fime,
O te beato! finiran tuoi giorni,
Ma non finirà mai la pingue dote
Del tuo campo, e godranla per molt'anni,
“De' figli i figli, e chi verrà da quelli.
Però (s'è ver, che ad ogni mal non manca
Atto rimedio) a quella sterilezza,
E a quest'eccidio del tuo pingue erario,
Provida pose la natura il freno,
E il molto danno compensò con poco.
Se molti campi hai tu, del sole esposti
A l'util sempre, ed immutabil giro,
Ma penuria in stabbio ti crucciasse,
Perchè le mandre sien da te lontane,
E tal sia 'l prezzo, come se cavarlo
Da le miniere del Perù convegna;
Alza 'l pensiero, e volgilo a le torri ,
Dove i colombi anno il fecondo nido.
Ivi 'l lungo soggiorno, e la pastura
Di quell'augel sacro a la Dea di Gnido,
Afrodite
Genera fime tal, che colombina
Vien detto, e che in proverbio per inutile
Cosa si prende, e pure a quest'effetto,
Ch'ora dimostrerotti, è sì giovevole,
Quanto a l'ape gentil dolce rugiada.
La colombina è tal caldo fermento,
Che da l'arena (sebben grave, e fredda)
Nè vincer punto, nè domar si lascia,
Come l'altro letame di miniere
Più vil, che nel girar di pochi soli ,
Da la bibace arena è soggiogato:
Nè a meno può, che penetrante al sommo
Non sia quel foco, e ciò che si rinserra,
Ciò che alimenta, e gira per le viscere
Di quel pennuto simbolo d'amore.
“Amore è incendio universal del mondo.
Tal colombina tu però non dei
Sopra terra gittar sola una volta,
Ma più fiate, tanto che ne ingrossi
La superfizie del terren ritroso.
Tocca a le piogge poi cortesi e lievi
Spremerne col cader le grasse parti,
Ed inzupparne l'arido midollo
De l'arenoso sottoposto letto,
Sicchè cangi natura, e fertil vegna.
Che se di bronzo è il ciel, e giù non stilli
Nemmen con la benefica rugiada;
Allor la vanga, il vomero, o la marra ,
Per arte fa ciò che non fe' natura.
Così fiorir la canape vedrai
Ben vigorosa, e 'l fil ch'indi usciranne,
Fia qual seta sottil, morbido e bianco;
E un nuovo frutto del primier non meno
Util, che sicurissimo n'avrai:
Perocchè, ripensando a l'avvenire,
Se vorrai dopo rivestir la terra
Di biade, o di qualunque altro sia grano,
In virtù di tal fime ivi sepolto,
Che forza serba per più anni ancora,
Raddoppierai per cento volte il seme;
E per gioja dirai, fuor di te stesso,
Che versò sopra quel terren felice
Cerere amica d'ogni ben la copia.
Nè questa sol è del terren la dote
Per nutricar sì fruttuosa pianta:
Guardar convienti, che fra terra e terra,
Fra vena e vena, e sin nel cupo fondo,
Per vicinanza d'alcun lago, o fiume,
Molesta scaturigine non sorga.
Questa sorgente, che per pioppi, o salci,
E per simili piante util vien detta,
Molto a la nostra canape è nociva,
Perchè morbide troppo, ed inzuppate
Tien le radici, onde l'effetto è poi,
Che putride divengono, e la canna
Troppo s'ingrossa per soverchio umore,
Deludendo così nel miglior tempo,
De l'affannoso agricoltor la speme,
Il quale ogni sudor, ogni suo studio
Perir si vede non maturo, o in erba.
Tal n'avrà danno ancor, se questo campo
Non sarà aprico e aperto, e in ogni parte
Del benefico sole esposto ai rai.
Chi vuol vedere il canaposo bosco
Ben folto, e di statura gigantesca,
Sterpi ogni pianta che 'l terren circonda,
Sicchè l'ombra maligna non l'aduggi :
O almen se tutte di troncar non osi,
(Perchè il danno presente assai tu guardi,
Piucchè l'util venturo, e forse incerto)
Almen su quelle sol cada il tuo ferro,
Che zazzerute più, più son ombrose,
Olmi, roveri, frassini, e cent'altre,
Che quando 'l sol più cuoce in sul meriggio
Al sudante bifolco fanno orezzo .
Sappi, che 'l sole è padre universale,
E gran limosinier de la natura:
E dove dominar non può 'l suo raggio,
Freddo tutto riman, languido e tristo.
Però, se ami la canape, a le piante
D'adulta scorza, e gigantesca vetta,
Giura perpetua guerra, e non amarle,
Nè perdonare a la tagliente scure,
Che ogni anno almeno ne recida i rami.
Così 'l sol co' suoi raggi, e l'aria aperta,
E 'l ciel tutto a suo pro scoperto in vista,
Tutte serenerà le tue speranze,
E doppio frutto in sua stagion n'avrai.
Questi giganti, che fann'ombra ogni ora,
Anzi questi papaveri superbi,
Che le bass'erbe e i teneri virgulti
An di tener sempr'umili vaghezza
Col prepotente loro alto dominio:
Non avrian tanto di baldanza in oggi,
Se un novello Tarquinio a farne strage
Con la sferzante sua verga sorgesse.
Ma tu puoi farlo, o agricoltor, su queste
Piante, che ti fann'ombra, e rendon trista
Nel tuo campo la canape: o se almeno
A l'interesse tuo nuoce il tagliarle
Fin da l'ima radice: e tu le svetta,
E tu le pota, e tu le scalva, e sfronda,
Che così non avran pena di morte,
Ma quella sol d'un ostracismo brieve,
Che per qualch'anno l'ombra toglieratti,
E in signoria ti lascerà del sole.